Evoluzione della chemioterapia antiblastica. La seconda ondata: anni 70-90


Pietro Masullo
UOC Oncologia, Presidio Ospedaliero di San Luca, Vallo della Lucania – ASL Salerno


INTRODUZIONE

Dopo l’iniziale sviluppo dei primi farmaci entrati routinariamente nell’uso clinico negli anni 50-70, e a seguito del netto aumento delle indicazioni alla chemioterapia in fase avanzata ma anche in combinazione con la chirurgia in modalità adiuvante e neoadiuvante, la ricerca di nuovi principi attivi antitumorali ricevette un notevole impulso grazie anche alle risorse impegnate dalle aziende farmaceutiche. Gli studi s’indirizzarono verso vari filoni di ricerca tutti promettenti e tutti provenienti dal mondo naturale: vegetali, ambiente marino, microrganismi, minerali.

I composti naturali, grazie alla loro notevole diversità chimica, sono stati ampiamente studiati per la loro possibile efficacia antitumorale per più di mezzo secolo, costituendo un ricco serbatoio di metaboliti bioattivi con potenziale azione terapeutica. Negli ultimi decenni sono stati compiuti enormi sforzi per isolare nuovi prodotti naturali da microbi, piante ed altri organismi viventi per valutarne le proprietà antitumorali ed esplorarne il meccanismo di azione1. A questi bisogna aggiungere un rinnovato interesse per i prodotti del mondo minerale che hanno consentito la sintesi di efficaci farmaci (es. il platino e i derivati del complesso). Si ritiene che nel periodo quarantennale 1980-2020 circa il 25% di tutti i farmaci antitumorali di nuova approvazione fosse correlato o derivato da prodotti naturali2,3. D’altra parte è noto che i prodotti naturali hanno segnato la storia della scoperta di farmaci antitumorali e alcuni di questi composti rappresentano ancora il cardine della terapia antiblastica: irinotecan, taxani, derivati della vinca, etoposide estratti da piante, antracicline, bleomicina e mitomicina estratti da muffe batteriche, trabectina di origine marina. Inoltre Sanz et al. nel 2019 hanno fornito un contributo significativo per riconsiderare il triossido di arsenico, antico rimedio della medicina popolare cinese e noto e valorizzato anche nella medicina araba da Avicenna, nella cura standard della leucemia promielocitica4, in associazione acido retinoico, con la trasformazione di un “primitivo” misterioso veleno in una moderna terapia con un meccanismo di azione bel compreso: degrada la proteina di fusione PML-RAR a driver oncogenetico dell’APL.

PRODOTTI DAL MONDO MINERALE

L’arsenico è stata la sostanza di derivazione minerale più utilizzata come antitumorale nel corso dei secoli e potrebbe essere definito il secondo antiblastico della storia dopo il Colchicum lingulatum risalente al I sec d.C. come documentato nel De materia medica di Dioscoride Pedanio di Anazarbo,opera enciclopedica in cinque libri. Scrive infatti l’Autore, attivo in Asia Minore tra il 40 e il 60 d.C., nell’ultimo libro dedicato ai minerali: “… L’arsenicon si ricava dagli stessi minerali della sandracca. Va considerato come migliore quello lamellare e dorato esternamente, che possiede delle lamine che si squamano, poste come se giacessero l’una sull’altra. Di tale fatta è l’arsenicon che si trova in Misia, nella regione dell’Ellesponto. Se ne hanno due tipi: il primo è quello suddetto, mentre il secondo è come formato da grumi, pallido in superficie, del colore della sandracca e viene esportato dal Ponto e dalla Cappadocia; è di qualità inferiore al primo… Ha proprietà settiche ed escarotiche, è anche bruciante e violentemente mordente. Appartiene alla classe delle sostanze astringenti. Fa cadere i capelli…” (Trad. su testo curato da Max Wellmann, 1958, per ed. Weidmann).

L’origine del nome viene dal persiano Zarnik che significa ornamento giallo per poi essere ripreso dal termine greco Arsenikon traslato successivamente nel latino Arsenicum. Veniva utilizzato durante l’età delBronzo unito al rame per formare una lega con caratteristiche simili al bronzo. Il primo ad isolare l’arsenico elementare fu Alberto Magno nel 1250. Non essendo molto chiari i sintomi da avvelenamento, veniva utilizzato spesso a scopo omicida. In epoca vittoriana veniva usato come cosmetico per migliorare la carnagione e sovente apposto sulle labbra dalle dame dell’epoca per avvelenare con un bacio un amante indesiderato e incauto. Con l’ideazione nel 1836 del Test di Marsh, chimico britannico, finalizzato a rilevare la presenza di arsenico nei tessuti5, l’avvelenamento da questo minerale può essere rilevato: viene utilizzato ancora oggi nella pratica tossicologica medico-legale.

La scoperta dell’arsenico da parte dei Romani nelle miniere del Monte Amiata nel III sec. a.C. portò un radicale cambiamento nella pratica dell’avvelenamento potendo essere somministrato in dosi ridotte e costanti che conducevano a morte. Nel Quattrocento l’arsenico veniva sovente utilizzato nelle corti europee a scopo omicida. Uno dei casi più famosi e contestati (denominato l’Affaire Lafarge) in cui il test di Marsh è stato utilizzato riguarda il processo nel 1840 a Marie Lafarge, nobildonna parigina, imputata per l’avvelenamento del marito, condannata ai lavori forzati in perpetuo e graziata, perché malata, dopo 10 anni da Napoleone III. Utilizzato in precedenza come rimedio per la malaria e la sifilide ebbe la prima riconosciuta indicazione in Medicina ad opera di Thomas Fowler (1736-1801), medico inglese, che nel 1786 riportò gli effetti benefici dell’elemento nella cura della febbre e cefalea cronica usato come soluzione idroalcolica di arsenito di potassio cui venne dato il nome di Liquore di Fowler. È il caso di ricordare che era a base di arsenico il diossidiamminoarsenobenzolo, sintetizzato da P. Ehrlich il 1909, comunicato al congresso di Wiesbaden l’anno successivo e passato alla storia come il primo chemioterapico antiparassitario riconosciuto come prodotto 606 e denominato Salvarsan.

In oncologia l’attività dell’arsenico è stata riportata per la prima volta da Lissauer nel 1865 nel trattamento di una leucemia e nel 1878 da Cutler e Bradford, che descrissero il ritorno in un range di normalità del numero dei leucociti in un paziente affetto da “leucocitemia” (1.073.000/mm3) trattato quotidianamente con Liquore di Fowler. Nel 1909 William Osler, medico canadese, (1849-1919) riconobbe l’arsenico come utile trattamento della Leucemia Mieloide Cronica (LMC) e ancora nel 1966 Paolo Introzzi (1898-1990), celebre clinico medico6 consigliava il suo uso a piccole dosi nella terapia di mantenimento della LMC. Come è stato detto precedentemente, uno dei primi farmaci metal-based contenente arsenico fu il Salvarsan7.

Altri agenti di origine minerale utilizzati nel Novecento a scopo antitumorale, soprattutto per la loro azione caustica, sono stati: Cloruro di zinco, Cloruro di Potassio, Benzolo, Piombo, Uretano.

Il cloruro di zinco veniva utilizzato dal chirurgo svizzero Emil Theodor Kocher (1841-1917), Premio Nobel per la Medicina nel 1909, dopo interventi parziali per cancro della tiroide e nel cancro dell’utero insieme al raschiamento, alla cauterizzazione, e alla rimozione della neoplasia.

Il clorato di potassio fu usato nelle neoplasie del viso insieme all’acido formico, all’acido nitrico, all’acido acetico.

Il benzolo venne usato con scarso successo da Sandor Koranyi (1866-1944), medico magiaro, in un caso di LMC. Invece, grande successo riscontrò l’uso di preparati a base di piombo proposta da Bell nel 1922 in un articolo su Lancet, in cui sosteneva che il piombo si legava alla lecitina il cui contenuto nelle neoplasie maligne era direttamente proporzionale alla velocità di crescita del tumore suggerendo anche che l’uso preventivo del piombo dopo asportazione completa della massa neoplastica, poteva essere efficace nel prevenire le ricorrenze di malattia (primo esempio di tentativo di terapia adiuvante!). L’uretano, infine, venne usato da Alexsander Haddow (1907-1976) patologo inglese, nel 1946 nella LMC e nel mieloma multiplo.

Le sostanze chimiche riportate non sono risultate di grande utilità della cura dei tumori, ma hanno suggerito l’idea della necessità di una terapia sistemica non essendo più sostenibile l’efficacia di un trattamento locale.

Complessi metallici in medicina

L’utilizzo di composti a base di metalli in ambito medico risale al XVI secolo periodo a cui si riferiscono documenti che testimoniano il ricorso a tali mezzi per la cura del cancro.

Molto degli ioni metallici presenti nella tavola periodica sono coinvolti nella regolazione di diverse funzioni fisiologiche e patologiche all’interno dei sistemi biologici. Una proprietà chimica dei metalli è rappresentata dalla loro capacità di perdere facilmente elettroni dal loro orbitale esterno e passare quindi dallo stato metallico o elementare ad una forma carica positivamente, forma “ionica”, che tende ad essere solubile nei liquidi biologici8. Alcuni metalli, rame, ferro, zinco, selenio, magnesio, sono definiti essenziali, in quanto oltre ad essere fisiologicamente presenti in tracce nell’organismo vivente sono fondamentali per la sopravvivenza delle cellule poiché coadiuvano biotrasformazioni indispensabili alla vita:

  • il ferro all’interno della emoglobina è in grado di legare le molecole di O2 grazie alla presenza dell’atomo allo stato di ossidazione Fe2+;
  • lo zinco, componente dell’insulina, fondamentale nella regolazione del metabolismo glucidico;
  • il calcio, minerale maggiormente presente nel corpo umano rappresentando la struttura fondamentale di ossa e scheletro9.

Il ruolo degli ioni metallici nei sistemi biologici è complesso e squilibri delle loro concentrazioni, spesso legati a cause ambientali o genetiche, sono associate a diverse patologie. Pertanto la ricerca scientifica si è orientata sullo studio e sviluppo di composti di coordinazione, quindi di farmaci contenenti ioni, come potenziali agenti utili ai fini medici10. In base alla Medicinal Inorganic Chemistry i complessi metallici, avendo un centro carico positivamente, sono in grado di legare biomolecole cariche negativamente come i costituenti di proteine ed acidi nucleici, ottimi leganti per ioni metallici. Tutto questo ha consentito l’introduzione di tali composti in ambito diagnostico e terapeutico10.

Nel 1845 il chimico Michele Peyrone (1813-1883) aveva sintetizzato il cisplatino, ma la scoperta della sua attività citostatica si deve al biofisico Barnett Rosemberg (1927-2009) nel 1965 durante gli esperimenti che stava conducendo per analizzare l’effetto del campo elettrico sulla crescita batterica di Escherichia coli11. Rosenberg osservò che la proliferazione batterica dell’Escherichia coli cessava e individuò la causa di questo fenomeno nell’elettrodo di platino utilizzato arrivando alla conclusione che i composti in grado di inibire la divisione del batterio potevano risultare utili anche per il trattamento del cancro: il complesso che conteneva lo ione Pt2+ con configurazione cis era molto efficace nell’arrestare la crescita delle cellule di sarcoma S180 e leucemia L1210: era stato scoperto il cisplatino. Questa scoperta accidentale ha aperto la strada anche a composti di coordinazione inorganici a base di platino nella terapia antitumorale12 mentre fino alla metà degli anni sessanta la terapia antitumorale si basava su composti puramente organici. Gli studi clinici sull’uso del cisplatino sono stati avviati nel 1971 e il cisplatino è stato approvato per l’uso nel cancro del testicolo e dell’ovaio dalla Food and Drug Administration negli USA e in diversi paesi europei nel 1979. Ancora oggi il cispaltino, (SP-4-2) diamminodicloroplatino II, è uno dei farmaci più utilizzati in vari tumori solidi13. Esercita la sua attività antitumorale attraverso molteplici meccanismi, ma il principale prevede il legame al DNA della cellula tramite interazioni con le basi puriniche per creare lesioni al DNA, bloccarne la produzione, arrestare la replicazione, attivare infine le vie di trasduzione che portano all’apoptosi. I due maggiori limiti all’uso del platino in terapia antitumorale sono l’insorgenza di gravi effetti collaterali e di resistenza al farmaco.

Attualmente sono stati approvati a livello mondiale per il trattamento del cancro altri due complessi di platino: carboplatino e oxaliplatino. Il primo ha un meccanismo di azione analogo a quello del platino, con formazione degli stessi addotti con il DNA ma minori effetti collaterali. I tumori resistenti al platino manifestano resistenza incrociata con il carboplatino. L’oxaliplatino presenta attività citotossica derivante dalla formazione di addotti con il DNA che sono diversi da quelli formati dal cisplatino. Inoltre altri preparati come nedaplatino, lobaplatino, heptaplatino sono approvati per uso clinico rispettivamente solo in Giappone, Cina, Corea del Sud. Non sono stati approvati a livello mondiale perché non presentano vantaggi rispetto al platino. La ricerca si è quindi rivolta verso lo studio di complessi metal-based con altri elementi come rame, rutenio, oro. Numerosi complessi di rame hanno dimostrato una spiccata attività antitumorale nei confronti di diverse linee cellulari14.I complessi di rutenio hanno mostrato una attività antitumorale specialmente nelle forme metastatiche e i complessi di oro, oltre all’utilizzo clinico nel trattamento dell’artrite reumatoide, si sono rivelati promettenti agenti antitumorali specie nei casi resistenti al platino dato che i due metalli agiscono su target differenti con l’oro che altera la funzione mitocondriale e inibisce la sintesi proteica15. Anche l’argento, che nel corso dei secoli ha avuto varie applicazioni in medicina prevalentemente per uso topico, ha destato interesse per una discreta azione antineoplastica ma non è mai pervenuto all’uso clinico16.

PRODOTTI DA BATTERI

Nello stesso periodo un altro ricco promettente filone di ricerca è rappresentato dalla scoperta di attività antitumorale rilevata casualmente in alcuni batteri del genere streptomyces. In maniera analoga a quanto occorso a Fleming nel 1929 allorquando notò per caso (esempio di serendipity) che una muffa Penicillium notatum aveva inibito intorno a sé la crescita di stafilococchi e che successivamente, isolata e coltivata, dimostrò una azione antibatterica. La scoperta venne perfezionata da Chain e Florey negli anni quaranta del secolo scorso e valse ai tre ricercatori il Premio Nobel per la Medicina nel 1945. Il primo antibiotico naturale dotato di attività anticancerogena è stato l’actinomicina isolata dallo Streptomyces antibioticus nel 1940 ma non entrata nell’uso clinico per la sua elevata tossicità, successivamente ridotta con lo sviluppo di alcune varianti della molecola originale che ne hanno consentito l’utilizzazione sfruttando la proprietà di azione intercalante dimostrata dal farmaco, molto utile nella distruzione di cellule a rapida proliferazione come quelle tumorali. Si usa ancora oggi per il trattamento di alcune forme tumorali infantili (tumore di Wilms, rabdomiosarcoma) e nel tumore del testicolo. È stato il primo chemioterapico utilizzato nel 1965 in modalità adiuvante nel tumore di Wilms.

Un passo successivo venne segnato dalla scoperta tutta italiana delle antracicline, antibiotici antitumorali che hanno dato e ancora danno un notevole impulso alla attività clinica. La storia inizia negli anni 50 del Novecento, allorquando i ricercatori dell’azienda farmaceutica italiana, la Farmitalia, cominciarono a cercare composti ad attività antineoplastica prodotti dai microbi, come era stato riscontrato in un campione pigmentato isolato da ceppo di streptomiceti proveniente da un campione di terreno raccolto in India e dotato di attività antiblastica. Nel 1957 i ricercatori italiani prelevarono campioni di terreno nell’area circostante il Castel del Monte di Federico II in Puglia, isolarono alcuni batteri del ceppo Streptomyces e scoprirono che uno di essi produceva un pigmento rosso vivo molto attivo sui tumori murini: si notò che l’attività antifungina era molto modesta e che l’azione antitumorale era dovuta alla formazione di una sostanza di natura chinonica. Questo composto, studiato nel 1963 da Federico Arcamone e Aurelio Di Marco, venne denominato daunomicina e lo Streptomyces venne chiamato peucetius per ricordare le regioni Daunia e Peucetia, che in tempi antichi costituivano la Puglia. La scoperta italiana aprì nuove importanti prospettive terapeutiche in ambito oncologico con l’immissione in commercio e quindi nella pratica clinica della Daunoblastina, nome commerciale con cui venne denominata la daunomicina.Nello stesso anno, 1968 venne immesso in commercio un altro antibiotico ad attività antitubercolare, frutto della ricerca italiana, destinato ad avere un ruolo di primo piano nella terapia di questa infezione: la rifampicina con in nome commerciale di Rifadin: in quegli anni sessanta sembrò che un miracolo farmaceutico affiancasse il “miracolo economico”. Il successo della ricerca italiana non venne scalfito dal clamoroso annuncio, nel 1969, che alcuni ricercatori francesi avevano isolato nei laboratori della Rhone Poulenc un microrganismo dello stesso genere di quello italiano, Streptomyces caeruleo-rubidus in grado di produrre una sostanza dotata di efficacia antiblastica denominata rubidomicina. A una approfondita verifica apparve evidente che i due antibiotici daunoblastina e rubidomicina erano “identici per struttura e attività biologica”17: la daunomicina e la rubidomicina erano la stessa molecola che venne chiamata daunorubicina. I trials clinici con il nuovo farmaco cominciarono negli anni sessanta per il trattamento delle leucemie acute e dei linfomi: si constatò che il farmaco causava tossicità cardiaca che poteva risultare fatale per i pazienti. La successiva evoluzione degli studi biologici, chimici e farmacologici dei ricercatori della Farmitalia, specialmente Aurelio Di Marco, scoprirono che si poteva modificare l’attività biologica della daunorubicina introducendo piccole modifiche nella sua struttura18: lo Streptomyces peucetius fu mutato usando lo N-metil N-nitroso uretano e ottenendo una nuova sottospecie di S. peucetius che produceva un altro antibiotico antiblastico di colore rosso: era nata la Doxorubicina, nel 1968,chiamata adriamicina, chimicamente un 14 idrossiderivato della daunorubicina19. Il nome venne prescelto sia per ragioni affettive (da Adriana, nome della figlia dello scopritore) sia per ragioni geografiche (il Mare Adriatico che bagna la Puglia). A differenza della daunoblastina, efficace soprattutto nelle leucemie e linfomi, la adriamicina esplica un’azione più ampia in particolare sui tumori solidi20. Nel settembre 1968 il dott. Gianni Bonadonna all’Istituto Tumori di Milano somministra la prima dose del farmaco ad un giovane paziente affetto da un sarcoma delle parti molli in fase avanzata; viene notato dopo qualche giorno un effetto indesiderato mai così eclatante dopo somministrazione di altri chemioterapici: la caduta inesorabile di tutti i capelli. Dopo qualche ciclo la massa tumorale si riduce in maniera impressionante così come un pacchetto linfonodale linfomatoso del collo scompare dopo pochi cicli di adriblastina. A completare la triade dei tumori maggiormente responsivi si aggiunge un caso di tumore mammario avanzato (linfoma, sarcoma, carcinoma mammario). Nel maggio 1969 G. Bonadonna presenta, primo italiano, i risultati ottenuti in 100 casi di pazienti trattati al congresso ASCO di quell’anno20. Negli anni ottanta l’adriblastina viene inserita negli studi clinici di terapia adiuvante. La doxorubicina dimostra di avere una attività terapeutica maggiore nei tumori solidi rispetto alla daunorubicina, ma presenta l’inconveniente di una minore produzione dalla nuova sottospecie batterica isolata. Un altro ricercatore, Hutchinson, dimostra che altre specie di Streptomyces, fatte crescere in particolari condizioni oppure opportunamente modificate geneticamente poteva produrre doxorubicina in maggiore quantità: in virtù delle tecniche innovative di Hutchinson21 nel 1999 si producono in tutto il mondo 225 kg di doxorubicina al costo di 1,3 miliardi di dollari. A causa della significativa cardiotossicità si dà impulso alla sintesi di un’altra antraciclina di pari efficacia ma meno tossica: la epirubicina22,23. Successivamente con lo scopo di ridurre la cardiotossicità delle antracicline si ricorre alla loro incapsulazione in membrane fosfolipidiche idrosolubili che consente di ridurre l’esposizione dei tessuti sani senza ridurre l’efficacia (antracicline liposomiali). Dai capostipiti daunorubicina e doxorubicina con il passare degli anni sono stati composti molti analoghi di questa famiglia sfruttando la facilità con cui si possono introdurre modifiche chimiche nella loro struttura sviluppando ad oggi circa 2000 analoghi. Comunque il meccanismo di azione della doxorubicina non è stato completamente chiarito. Il primo meccanismo considera la capacità del farmaco di intercalare il DNA inserendosi nella doppia elica e impedendo la sintesi degli acidi nucleici. Successivamente si è ipotizzato che i chinoni della doxorubicina vengono convertiti in semichinoni che possono danneggiare direttamente il DNA interagendo con l’ossigeno molecolare. Inoltre le antracicline possono causare alterazioni della membrana cellulare e della membrana mitocondriale inducendo la citotossicità. Allo stato attuale si pensa che l’azione della doxorubicina sulle cellule tumorali e quella tossica sulle cellule che si dividono possa essere dovuta alla azione di inibizione della topoisomerasi24, mentre la cardiotossicità sarebbe dovuta alla formazione di radicali ossidanti e a modifiche delle membrane cellulari.

Un altro antibiotico ad attività antitumorale di derivazione microbica è la bleomicina prodotta dallo Streptomyces verticillus, in grado di intercalarsi nel doppio filamento di DNA dove è in grado di formare radicali liberi citotossici che causano la rottura e la frammentazione del DNA impedendone la riparazione (inibizione DNA ligasi) privando la cellula della sua struttura essenziale e quindi inducendola a morire.Tra gli effetti collaterali di maggior rilievo è descritta la fibrosi polmonare.

Tra gli antitumorali di derivazione batterica va annoverata anche la mitomicina C prodotta dallo Streptomyces caespitosus. La lettera C che segue il nome serve per distinguerla dalle mitomicine A e B che solo in particolari condizioni possono essere prodotte dal batterio. È molto utilizzata nel trattamento del carcinoma della vescica a basso grado a mezzo di instillazioni endovescicali. Recentemente è stato pubblicato su Science Transnational Medicine un importante studio che definisce come l’azione del farmaco sia mediata dal sistema immunitario.

La mitramicina è una sostanza prodotta da un batterio Streptomyces plicatus, argilllaceus, tanashiensis ed esplica la sua azione, in presenza di magnesio, formando un complesso con l’RNA inibendo la sua sintesi e quella enzimatica. Utilizzato nel trattamento del tumore del testicolo, per ridurre l’ipercalcemia neoplastica, nel morbo di Paget, va maneggiato con molta attenzione per i gravi effetti collaterali (difetti di coagulazione, tossicità da contatto, insufficienza epatica e renale…).

Gli epotiloni rappresentano una classe di composti naturali isolati nel 1987 dal mycobacterium Solangium cellulosum (ceppo Soce 90) noto per la sua capacità di degradare la cellulosa. Gli epotiloni A e B sono dotati di azione antitubulinica.

PRODOTTI DI DERIVAZIONE VEGETALE

Le sostanze di origine naturale sono sempre state utilizzate nella terapia dei tumori fin dai tempi più antichi e ancora oggi destano enorme interesse nella comunità scientifica orientata ad un loro utilizzo in un contesto rispondente a indicazioni su basi obiettive e in un’ottica multidisciplinare ove la complementarità e l’integrazione guidano le scelte terapeutiche nell’interesse del paziente. D’altronde è ampiamente conosciuto che molte molecole sintetizzate chimicamente e utilizzate come farmaci sono derivate da sostanze vegetali: vincristina, vinblastina, vinorelbina sono derivati dalla Vinca maior, la camptotecina dalla Campthoteca acuminata, i taxani dalla pianta di Taxus braevifolia così come alcuni antibiotici antiblastici sono ottenuti da microrganismi come la bleomicina, la daunomicina, la doxorubicina ed altri farmaci sono di derivazione marina come la trabectidina, la citarabina, la eribulina. Molte altre sostanze e derivati semisintetici sono utilizzati nella terapia oncologica come adiuvanti o integratori in maniera complementare alle terapie tradizionali (chemio o radio) e agiscono efficacemente attraverso diversi meccanismi che utilizzano principi attivi purificati oppure estratti di droghe vegetali. I principi attivi ad attività antitumorale sono in costante crescita e sono compresi in gruppi chimici del metabolismo secondario delle piante: tale attività è stata riscontrata in terpeni, alcaloidi, lignani, chinoni, peptidi, lecitine, flavonoidi.

Le piante hanno una lunga storia nel trattamento antitumorale svolgendo un ruolo significativo come sorgente diretta o indiretta di farmaci. Infatti più del 60% dei farmaci antineoplastici hanno una origine naturale derivando da piante, organismi marini e microrganismi.

Il successo della ricerca di agenti antitumorali da organismi vegetali è iniziato a metà del XX secolo con la scoperta degli alcaloidi della vinca e l’isolamento delle podofillotossine. In seguito a queste evidenze il National Cancer Institute (NCI) ha avviato nei primi anni 60 un intenso programma di raccolta e screening di piante focalizzando l’attenzione su quelle provenienti dalle zone temperate del pianeta. La realizzazione di questo programma ha consentito l’individuazione di molti nuovi composti ad alto potenziale citotossico tra cui le camptotecine e i taxani. La ricerca si è conclusa negli anni 90 portando diverse nuove molecole in campo clinico e molte altre in fase pre-clinica avanzata6. Il successo è dovuto all’incredibile biodiversità presente nel regno vegetale che ha dimostrato e continua a dimostrare di essere una preziosa fonte di nuovi farmaci antitumorali e non solo8,9. Sono state così individuate le principali piante medicinali da cui sono derivati importanti farmaci antitumorali: Colchicum autumnale, Podophillum peltatum, Camptotheca acuminata, Catharanthus roseus, Chelidonium majus, Taxus baccata e brevifolia.

L’evoluzione della fitoterapia in campo oncologico è proseguita in parallelo con l’evoluzione della terapia stessa. Dopo le scoperte dei farmaci ad attività antiblastica negli anni 60-90 oggi le piante medicinali hanno assunto anche un altro ruolo in oncologia: alcune preparazioni vegetali hanno dimostrato di possedere attività antiangiogenetica allargando le potenzialità terapeutiche e molte altre hanno dimostrato di possedere importanti applicazioni cliniche come supporto alla chemio e radioterapia migliorandone l’efficacia e diminuendo gli effetti collaterali. Si può schematicamente affermare che oggi il regno vegetale contribuisce alla lotta contro i tumori fornendo principi attivi ad attività antiblastica, antiangiogenetica, di protezione degli effetti tossici chemio-radioindotti, di terapia di supporto.

Scopo della terapia antitumorale è la distruzione selettiva delle cellule tumorali. Tra i composti naturali maggiormente attivi dotati di attività antineoplastica sono quelli che interagiscono con la tubulina.

La tubulina è una proteina globulare che costituisce l’unità fondamentale delle strutture del citoscheletro, il microtubulo. Essa è implicata in numerose funzioni essenziali per la sopravvivenza cellulare: mitosi, trasporto, mobilità cellulare, movimento ciliare e dei flagelli. I microtubuli rappresentano un target privilegiato per numerosi agenti antitumorali che possono essere classificati in due categorie:

  1. composti che inibiscono la polimerizzazione della tubulina e impediscono la formazione dei microtubuli e a loro volta possono essere suddivisi in due sottogruppi in funzione dei loro siti di legame alla tubulina:
    1. agenti che si legano al sito della colchicina (fiori del Colchicum autumnale L., del podophillum peltalum chiamato anche podofillo o mandragola)
    1.  agenti che si legano al sito di legame della Vinca
    1. camptotecine
  2. composti che inibiscono la depolimerizzazione e stabilizzano i microtubuli:
  3. taxani
  4. fiori del Colchicum autumnaIis Colchicum autumnale è una piccola pianta erbacea della famiglia delle Liliacee molto comune in Italia, con fiori di colore lilla-rosa.
Fiore di Colchicum autumnale L.

Colchicum autumnale

Di questa pianta (Figura 1) vengono utilizzati i bulbi, i semi ed i fiori che contengono amido, zucchero, gomme, resina e due alcaloidi: colchicina e colchiceina, la prima insolubile in acqua presenta elevata tossicità, la seconda non ha impiego in farmacologia. Agiscono come “veleni del fuso mitotico” inibendo la polimerizzazione della tubulina e di conseguenza bloccando la mitosi. L’attività antimitotica della colchicina è stata scoperta da cica 60 anni ma non viene utilizzata attualmente in terapia antiblastica per la sua elevata tossicità mentre si utilizza nella terapia della gotta e della febbre mediterranea familiare. La scoperta della colchicina ha consentito la sintesi di numerosi derivati tra cui il profarmaco dell’allocolchinolo chiamato ZD6126 6 e dei colchinoidi.

Fiore del Podophyllum peltatum

Podophillum peltalum

Le Podofillotossine sono composti derivati dal Podophillum peltalum (podofillo o mandragola) pianta erbacea della famiglia delle Berberidaceae (Figura 2)

La podofillina è una resina usata nel passato per il trattamento delle verruche ed era stata inserita nella farmacopea americana dal 1820 al 1942 allorquando venne rimossa per la sua tossicità.

I suoi derivati semisintetici etoposide e teniposide rappresentano farmaci attivi contro varie forme di neoplasie: linfomi, carcinoma del testicolo, del polmone, leucemia. Blocca le cellule neoplastiche nell’ultima parte della fase S e in G2 della mitosi inibendo la topoisomerasi II e quindi di conseguenza la sintesi del DNA.

L’Etoposide deriva dalle radici di mandragora (Podophyllum peltatum). Il suo meccanismo di azione non è ancora completamente chiarito ma potrebbe inibire la funzione mitocondriale e il trasporto dei nucleosidi o interferire con la topoisomerasi II analogamente alla doxorubicina, esplicandosi principalmente sulla Fase G2 del ciclo cellulare. Alla stessa classe di farmaci appartengono anche il teniposide, podofillotossina, epipodofillotossina, derivati semisintetici. Sono conosciute già dagli Indiani d’America per la loro proprietà antielmintica ed emetizzante.

Fiore della Vinca

Agenti che si legano al sito di legame della Vinca

La Pervinca del Madagascar (Catharanthus roseus G. Don o Vinca Rosea L) della famiglia delle Apocinaceae eretta, di 35-80 cm di altezza è stata usata in passato nella medicina popolare per bloccare la secrezione lattea e nella cura del diabete. (Figura 3).

Sottoposta a studi specifici non ha rivelato nessuna efficacia sulla glicemia e ha aumentato la suscettibilità degli animali verso le infezioni batteriche inducendo i ricercatori a identificare eventuali composti ad azione immunosoppressiva: sono stati così isolati e caratterizzati alcuni alcaloidi dimerici indolici provvisti di attività antileucemica, la vincristina, la vinblastina,la vindesina che si trovano nella pianta in percentuali assai basse (0,0002%). La droga è costituita dall’intera pianta e gli alcaloidi isolati trovano impiego nella cura di leucemie, linfomi, alcuni tumori solidi (testicolo, polmone, mammella). In particolare un alcaloide semisintetico, la vinorelbina, è entrato nell’uso clinico routinario per curare il tumore del polmone e della mammella. Il principale meccanismo con cui queste molecole esplicano l’azione citotossica è dato dall’interazione con la tubulina determinando un’alterazione della funzione dei microtubuli, costituenti essenziali del citoscheletro della cellula, da cui dipende la formazione del fuso mitotico. Il risultato di questa azione è l’arresto mitotico in metafase, la disgregazione del fuso, e un’alterazione del processo di segregazione dei cromosomi. Gli alcaloidi della Vinca sono in grado di esplicare anche altre azioni a livello cellulare: inibizione della sintesi proteica, alterazione del metabolismo lipidico, incremento dei livelli di c-AMP. Gli alcaloidi della Vinca sono farmaci ciclospecifici e a causa della disgregazione dell’apparato mitotico la divisione cellulare si arresta in metafase. E l’incapacità a segregare i cromosomi in maniera corretta, che invece si disperdono nel citoplasma, determina la morte cellulare. La vinorelbina, derivato semisintetico della vinblastina, è disponibile in formulazione orale, risulta meno neurotossica a causa della più bassa affinità per i microtubuli neuronali rispetto a quelli mitotici, è stata studiata nel trattamento di pazienti affetti da cancro della mammella, sia da sola sia in associazione con la capecitabina, da cancro del polmone sia come agente singolo in grado di migliorare la qualità della vita, sia in combinazione con cisplatino con significativo aumento della sopravvivenza rispetto al solo platino.

Riepilogando: gli alcaloidi della Vinca derivano dallaPervinca del Madagascar (Catharantus roseus). I membri principali sono rappresentati da vincristina, vinblastina, vindesina, vinorelbina. Questi farmaci legano la tubulina e inibiscono la sua polimerizzazione a formare i microtubuli prevenendo la formazione del fuso mitotico nelle cellule in divisione e causando l’arresto della mitosi in metafase. I loro effetti si manifestano soltanto durante la mitosi. Inibiscono anche altre attività cellulari che coinvolgono i microtubuli, come la fagocitosi e la chemiotassi leucocitaria.

Pianta di Camptotheca acuminata Decne

Camptoteca acuminata

La Camptoteca acuminata è un albero (Figura 4) della famiglia delle Nyssaceae, originaria di Tibet e Cina. La camptotecina è un alcaloide naturale estratto da tale pianta la cui principale attività citotossica dipende dall’interazione con l’enzima topoisomerasi I che è responsabile della riduzione della tensione torsionale nel DNA superavvolto. Derivati di questa molecola sono il topotecano e l’irinotecano (pro-farmaco) che sono utilizzati con buoni risultati nel trattamento di neoplasie ovariche, comprese quelle resistenti al platino, del carcinoma del colon-retto, compresi quelli non responsivi al 5-FU, nel carcinoma del polmone e del pancreas. Le camptotecine si legano e stabilizzano il legame tra topoisomerasi I e DNA consentendo il taglio dell’acido nucleico da parte dell’enzima ma inibendo la successiva chiusura dell’elica e determinando l’accumulo di singoli filamenti del DNA e la conseguente morte cellulare.

Riepilogando: la camptotecina è stata isolata dalla corteccia di Campotheca Acuminata Decne all’inizio degli anni sessanta del Novecento ma la sua applicazione come agente antitumorale è stata latente per circa venti anni fino a quando è stata scoperta la sua modalità di azione25 consistente nel blocco e nella inibizione della topoisomerasi I, enzima coinvolto sia nella replicazione del DNA e sia nei processi di trascrizione. A metà degli anni Novanta due analoghi della camptotecina, Irorecan e Topotecan, sono stati approvati dalla FDA per il trattamento di vari tipi di cancro.

Albero di Taxus brevifolia

I taxani

I componenti di questa classe sono alcaloidi di origine naturale come il paclitaxel che venne estratto dalla corteccia del Taxus brevifolia (Figura 5) da Wall e Wan o derivati semisintetici come il docetaxel largamente utilizzati nella terapia antitumorale (polmone, mammella, ovaio…). Il loro meccanismo di azione si basa sulla capacità di interferire con la formazione dei microtubuli agendo su target molecolari differenti rispetto agli altri composti naturale come le podossifillotossine, la colchicina, gli alcaloidi della vinca. In particolare il paclitaxel e i suoi derivati si legano al microfilamento determinandone una stabilizzazione prolungata con conseguente depolimerizzazione dei microtubuli tra la profase e l’anafase della mitosi e alterazione della formazione del fuso mitotico con arresto del ciclo di divisione cellulare e conseguente morte della cellula cancerosa13. È stato inoltre dimostrato che il docetaxel ha una più ampia attività radiosensibilizzante rispetto al paclitaxel10.

Un problema che si è dovuto affrontare riguardo all’estrazione del paclitaxel dalla corteccia dell’albero è stato quello del principio attivo in quanto l’estrazione avrebbe comportato alti costi e bassa resa e la rapida estinzione della specie. Tale ostacolo è stato fortunatamente superato dalla scoperta della 10-deacetilbaccatina III (DAB), un diterpenoide che include il complesso sistema tetraciclico del paclitaxel e che viene isolato in buona quantità dalla pianta del tasso europeo (Taxus Baccata). In tal modo la semisintesi del paclitaxel a partire dal composto 2 consente un migliore approvvigionamento del farmaco oltre a favorire lo sviluppo di nuovi tassoidi con migliori proprietà farmacologiche.

Come è stato precedentemente riferito Il taxolo è stato dapprima isolato dalla corteccia di Taxus brevifolia che è una risorsa limitata e produce soltanto una quantità minima del composto, insufficiente per l’uso terapeutico fino a quando il problema è stato risolto con una procedura semisintetica basata sull’uso di DAB 810-Deacetylbaccatin) che proviene sempre da una risorsa vegetale. Il taxolo lega i microtubuli e causa disfunzioni nella loro dinamica con conseguente “catastrofe mitotica” delle cellule tumorali. A differenza degli alcaloidi della vinca stabilizzano i microtubuli (“congelandoli”). La nuova formulazione del farmaco che utilizza l’albumina legata a strutture nanoparticellari (nab) è stata in grado di aggirare le gravi tossicità segnalate e di concentrarsi pienamente sul tessuto tumorale26.

Come è ampiamente noto, i farmaci antiblastici rappresentano un esempio paradigmatico della duplice funzione di veleno e di rimedio, di veleno che diventa rimedio, con innumerevoli esempi reperibili in letteratura medica e non.

Al riguardo si cita spesso un passo del “De Bello Gallico” di Giulio Cesare ove si parla dell’albero di tasso le cui foglie contengono un veleno così potente che lo stesso albero è denominato albero della morte. Si racconta nel capitolo VI la vicenda di Catuvolco, re di una tribù dei Galli, che si diede la morte bevendo un infuso di foglie di tasso pur di non arrendersi ai Romani; la sobria, sintetica scrittura di Cesare, unita alla potenza espressiva della costruzione latina rende la narrazione ancora più incisiva: “Catuvolcus, rex dimidiae partis Eburonum, qui una cum Ambiorige consilium inierat, aetate iam confectus, cum laborem aut belli aut fugae ferre non posset, omnibus precibus detestatus Ambiorigem, qui eius consilii auctor fuisset, taxo, cuius magna in Gallia Germaniaque copia est, se examinavit”.

Oggi, a distanza di 20 secoli il principio attivo contenuto nelle foglie dell’albero di tasso, trasformato dai miracoli dell’industria farmaceutica in una formulazione farmaceutica iniettabile per via parenterale, è diventato un efficace rimedio per la cura del tumore della mammella, dell’ovaio, del polmone, uccidendo e distruggendo le cellule tumorali, inducendo la paralisi e la cristallizzazione del fuso mitotico che ne impedisce la duplicazione e le conduce a morte per apoptosi; si perpetua in tal modo l’ambiguo, magico potere di dare la morte e di soccorrere la vita.

Il nome “tasso” deriva dal greco taxon che significa freccia, e l’appellativo di albero della morte nasce proprio dal suo impiego nella fabbricazione di dardi velenosi e dalla sua caratteristica tossicità e veniva anche utilizzato nelle alberature dei cimiteri: a tale riguardo Ovidio testimonia come la strada che conduceva agli inferi era fiancheggiata da alberi di tasso. Albero di incredibile longevità (si parla dell’esistenza di esemplare di 1500-2000 anni; nel Giardino dei Semplici di Firenze ne è presente un esemplare piantato da Pier Antonio Micheli nel 1720) è originario del Nord Africa e vegeta spontaneamente nelle zone montuose dell’area mediterranea. Plinio il vecchio notò che molte persone venivano a morte dopo aver bevuto vino conservato in un recipiente ricavato da alberi di tasso e parla di veleni chiamati taxica e quindi toxica: “Similis his etiamnunc aspectu est, ne quid praetereatur, taxus minime virens gracilisque et tristis ac dira, nullo suco, ex omnibus sola bacifera. Mas noxio fructu; letale quippe bacis in Hispania praecipue venenum inest, vasa etiam viatoria ex ea vinis in gallia facta mortifera fuisse compertum est: Hanc Sextius smilacem a Graecis vocari dicit etb esse in Arcadia tam praesentis veneni, ut qui obdormiant sub ea cibumve capiant moriantur. Sunt qui et taxica hinc appellata dicant venena – quae nunc toxica dicimus – quibus sagittae tinguantur. Repertum innoxiam fieri, si inj ipsam arborem clavus aereus adigatur.” (Naturalis Historia, XVI, 50-51). Gli alcaloidi del tasso producono aritmie e dispnea, portano in poche ore alla paralisi muscolare infine ad uno stato comatoso e quindi alla morte. La capacità di provocare violente contrazioni addominali lo fece diventare nel medioevo un metodo abortivo frequentemente utilizzato e spesso con l’esito drammatici di portare a morte anche la gestante. Si calcola che un grammo di pianta per kg di peso corporeo è sufficiente come quantità letale per un essere umano. A ricordare il potere magico attribuito a questa pianta c’è il bindhi, il piccolo punto sulla fronte usato in India ottenuto con la tintura ricavata dalla corteccia del tasso: è probabile che gli antichi sapienti indiani sapessero preparare dall’alcaloide una “pozione magica” in grado di alterare la coscienza. Il taxolo, alcaloide poco solubile in acqua, è attivo in molte forme tumorali grazie al suo peculiare meccanismo di azione che consiste nel cristallizzare il fuso mitotico impedendo la replicazione cellulare e portando a morte la cellula per apoptosi, diversamente da come agiscono altri alcaloidi come i derivati della vinca che invece depolimerizzano il fuso mitotico e impediscono alla cellula di dividersi. L’originale meccanismo d’azione del taxolo è stato scoperto nel 1979 da Susan Horwitz: stabilizzazione della tubulina, proteina globulare che costituisce l’unità fondamentale del citoscheletro, ossia il microtubulo che si forma per polimerizzazione reversibile della proteina stessa. La tubulina è implicata in numerose funzioni essenziali per sopravvivenza della cellula: divisione e riproduzione per mitosi, trasporto, mobilità cellulare, movimento ciliare. Le cellule neoplastiche non presentano lo stato di quiescenza normale delle cellule sane e quindi tendono a riprodursi in maniera incessante: i microtubuli rappresentano un target importante e privilegiato per l’azione di numerosi agenti chemioterapici e il taxolo legandosi ad essi li stabilizza, ne impedisce la depolimerizzazione, interferendo sull’equilibrio tubulina-microtubuli. Si riduce in tal modo la concentrazione di tubulina libera e il periodo di induzione per la polimerizzazione con la conseguenza che i microtubuli formati in presenza del taxolo hanno una morfologia differente ed una minore lunghezza. Si arresta quindi il ciclo mitotico con la conseguente apoptosi delle cellule neoplastiche. Monroe Wall e M.C. Wani nel 1963 scoprirono che il taxolo ricavato dalle foglie del tasso possedeva attività antitumorale e ne isolarono nel 1971 il principio attivo. Nel 1992 la FDA autorizzò l’impiego del taxolo per il carcinoma ovarico e nel 1993 anche l’EMEA autorizzò l’uso in terapia estendendolo anche al carcinoma metastatico della mammella e nel 1998 anche al carcinoma polmonare: il veleno si è mutato in un potente farmaco antitumorale.

CONCLUSIONE

Nella seconda metà del XX secolo i composti di origine naturale sono stati i protagonisti della terapia antitumorale; tuttavia alla fine degli anni 90 la ricerca si è orientata verso nuove strade e nuovi obiettivi in conseguenza di un nuovo approccio farmacologico incentrato sulle terapie molecolari mirate (anticorpi monoclonali, inibitori delle chinasi)14, su nuovi approcci di rilascio dei chemioterapici come ad es. immunoconiugati, nanoparticelle che consentano di limitare al massimo i danni ai tessuti sani. Dal 2007 però l’approvazione di tre nuovi farmaci derivanti da prodotti naturali (ixabepilone, trabectedina, temsirolimus) e l’emergere di promettenti composti antitumorali da microrganismi (come le la sarinosporamide) e le nuove formulazioni di farmaci già noti derivanti da prodotti naturali hanno nuovamente risvegliato l’interesse e incentivato gli studi sulla ricerca e sviluppo di farmaci di origine naturale (ad es. la formulazione dell’anticorpo monoclonale trastuzumab immunoconiugato con la mertansile 10, tossina prodotta da Maytenus buchananii, utilizzato nella terapia del cancro della mammella HER 2 + in stadio avanzato). Inoltre un altro importante fattore che ha contribuito alla riscoperta del mondo naturale come fonte di composti ad attività farmacologica (antitumorale e non solo) è stata la pubblicazione nel 2004 da parte della FDA (Food and Drug Administration) delle linee-guida per l’approvazione del farmaco di origine botanica, il cosiddetto botanical drug destinato alla cura e alla prevenzione delle malattie dell’uomo. Esso è costituito da sostanze vegetali, può essere disponibile in varie formulazioni ed è composto da miscele complesse i cui principi attivi possono essere non noti suscitando grande interesse per la loro complessità intrinseca, per la loro capacità di interagire con molteplici target e influenzare diversi pathway: si sta affermando sempre più il concetto di pianta come biofabbrica per la produzione di composti di interesse terapeutico e l’obiettivo di studio di una pianta si è ampliato spostando l’interesse per l’identificazione del singolo principio attivo verso l’osservazione della pianta in toto e focalizzando l’attenzione sul fitocomplesso considerato come l’insieme dei componenti attivi e non attivi di una droga vegetale.

PRODOTTI DI ORIGINE MARINA

I derivati di origine naturale hanno sempre avuto un ruolo rilevante nell’evoluzione della medicina e particolarmente nell’arricchire l’armamentario terapeutico. Ancora oggi il mare ospita molta più biodiversità rispetto alla terra raccogliendone circa 80% e rappresentandone un enorme potenziale in quanto è ancora in massima parte inesplorato. La vita marina che pullula sui fondali è una miniera di sostanze utili contro numerose malattie, in special modo contro i tumori, contenendo migliaia di molecole potenzialmente efficaci in ragione della storia antichissima di molte specie oceaniche, molte di origine ancestrale. Ci sono circa 10.000 molecole di derivazione marina allo studio per ricavarne farmaci antineoplastici e sono circa 200 le sostanze in sperimentazione clinica. Anche in fondo al Mediterraneo c’è una immensa farmacia: alghe da sfruttare per trattamenti estetici, pesci cartilaginei per curare malattie neuropsichiatriche (Alzheimer, schizofrenia), spugne ricche di sostanze antitumorali27. È acquisizione degli ultimi 25 anni che l’oceano nasconde molecole farmacologicamente attive e grande impulso alla loro identificazione e produzione industriale è stato apportato dall’avvento e dall’espansione delle biotecnologie marine come ad es. lo screening ad alta processività che consente di eseguire rapidamente milioni di test per identificare composti biologicamente attivi. Molti composti di origine marina sono strutturalmente complessi, caratterizzati da funzionalità uniche, possiedono spiccate attività biologiche grazie anche ad alcune condizioni favorenti: situazioni estreme dell’habitat, mancanza di luce, alta pressione, alta concentrazione ionica, temperature variabili, scarsa disponibilità di cibo, spazi vitali ristretti, di conseguenza l’alta concentrazione di organismi coesistenti in un territorio scomodo li rende competitivi e complessi. Pertanto gli organismi sviluppano una serie di adattamenti e comportamenti atti alla salvaguardia della specie: strategie di difesa dalla predazione, dalla proliferazione di specie competitive, soppressione delle prede mobili per ingestione. Le strategie chimiche di una specie si avvalgono del ricco bagaglio di molecole del proprio “metabolismo secondario”: terpeni, alcaloidi, polichetidi, peptidi glicosidi, steroidi. Comune e unica nell’ambiente marino è la presenza di atomi di alogeni (cloro e bromo) legati in maniera covalente allo scheletro molecolare.

I primi agenti terapeutici di origine marina risalgono al 1950 allorquando Bergmann e Finney isolarono i nucleosidi spongouridina e spongotimidina dalla spugna Tethya cripta. Il successivo sviluppo di analoghi sintetici ha fornito due composti di rilevanza clinica: l’arabinoside adenina e l’arabinoside citosina, ampiamente ed efficacemente utilizzati in clinica nel trattamento della leucemia mielocitica acuta e del linfoma non Hodgking.

Ecteinascidia  turbinata

Tra spugne, coralli, pesci, tunicati, gasteropodi è nascosta una vera e propria farmacia: due sono ormai entrate a pieno titolo nella cura dei tumori: la ecteinascidina e la halicondrina. La prima, sintetizzata in laboratorio con il nome di trabectedina ad azione alchilante, è stata isolata negli anni sessanta dall’Echteinascidia turbinata (Figura 6), piccolo organismo a forma di otre che cresce sulle radici delle mangrovie nel mar dei Caraibi e da un duplice meccanismo di azione: interagisce con il DNA che innesca la morte programmata, distrugge selettivamente i TAM (macrofagi associati al tumore) e i loro precursori riducendone il numero e inibendone l’azione che favorisce la crescita neoplastica agendo quindi a livello del microambiente tumorale. È noto che la presenza di TAM nel microambiente tumorale provoca resistenza alla chemioterapia e promuove lo sviluppo della malattia. Lo studio a cura di P. Allavena (Ist. Cli. Humanitas), M. D’Incalchi (Ist. M. Negri), P. Casali (Ist. Tum. Milano) è stato pubblicato sulla rivista Cancer Cell del febbraio 2013 con il titolo originale Role of Macrophage targeting in the AntiTumor Activity of Trabectedin. Lo studio dimostra che la trabectedina elimina sia i macrofagi tumorali (TAM) che i loro precursori (monociti). Queste cellule del sistema immunitario producono fattori di crescita che stimolano la proliferazione delle cellule tumorali e lo sviluppo di nuovi vasi. La molecola si lega al DNA e impedisce ad alcuni geni di intensificare la loro azione; in tal modo si rallenta la divisione cellulare e di conseguenza la crescita.

Halicondria Okadai 

Un secondo gruppo promettente è rappresentato dalle spugne e loro derivati. Questi semplici organismi provvisti di un apparato filtratore possiedono un vero e proprio arsenale antimicrobico e bioattivo. Nel 1986 da una spugna del Mar del Giappone Halicondria Okadai (Figura 7) è stata isolata da Uemura e coll. l’Halicondria B da cui è stato sintetizzato l’analogo eribulina attivo nel tumore della mammella che agisce sulla crescita dei microtubuli mediante un meccanismo di avvelenamento terminale. Il meccanismo principale di eribulina è l’induzione di un blocco mitotico irreversibile e apoptosi mediante azione inibitiva della polimerizzazione dei microtubuli. Accanto a questo meccanismo di azione numerosi studi hanno sostenuto l’ipotesi che l’eribulina abbia altri effetti sulle cellule tumorali, come ad es. lo spostamento dai fenotipi mesenchimali a quelli epiteliali attraverso l’inversione della transizione epitelio-mesenchimale, sul rimodellamento della neovascolarizzazione, sulla espressione di proteine che regolano le reazioni immunitarie antitumorali.

Inoltre da due specie del batterio attinomicete Micromonospora marina, isolato per la prima volta sulle coste del Monzambico si ottiene il composto Thiocoraline sperimentato in casi di tumore del polmone, del colon, del rene. Dalla stella marina Marthasterias glacialis è stata estratta in Francia dai ricercatori del CNRS una molecola con attività antiproliferativa il cui effetto inibente si esercita sulle proteine chinasi ciclina-dipendenti (CDK) che hanno un ruolo fondamentale nella regolazione del ciclo cellulare.

Infine è in corso presso vari centri europei (tra cui il Pascale di Napoli) una sperimentazione sul linfoma diffuso a grandi cellule con una terapia innovativa sull’uso di un anticorpo immunoconiugato molto ben tollerata di efficacia superiore alle attuali chemioterapie. L’immunoconiugato è un anticorpo che si lega in maniera specifica alle cellule del linfoma introducendo al loro interno una potente tossina di origine marina (auristatina E).

CONCLUSIONI

La seconda ondata rappresenta “l’epoca d’oro” della chemioterapia dopo “il periodo eroico” che ha caratterizzato la prima. Sono stati sintetizzati e introdotti nella pratica clinica numerosi potenti farmaci che hanno segnato la storia dell’oncologia. Sono state formulate modalità e procedure che hanno razionalizzato l’uso farmacologico con la teorizzazione e l’avvento della polichemioterapia per sfruttare e potenziare la sinergia di azione di farmaci singolarmente attivi. La diffusione e l’incremento esponenziale dei trials clinici randomizzati multicentrici hanno fatto balzare al primo posto la disciplina oncologica nella ricerca clinica volta all’identificazione di prove di maggiore efficacia terapeutica da tradurre nella pratica clinica. L’associazione di valide terapie di supporto ha consentito l’allargamento delle indicazioni terapeutiche a fasce di età e a situazioni cliniche che fino ad allora ne erano precluse. L’impostazione metodologica basata sulla multidisciplinarietà nel corso degli anni ha esitato nella realizzazione di reti oncologiche regionali. Inoltre bisogna ricordare che l’uso routinario di sostanze citotossiche nei reparti ospedalieri ha determinato la formulazione e l’adozione di rigide normative che hanno imposto standard di sicurezza a cui riferire procedure di allestimento, somministrazione e smaltimento dei farmaci in strutture idonee e controllate a protezione dei pazienti, del personale, dell’ambiente. Da ultimo la ricerca di nuovi farmaci sempre più selettivi, nella scia della scoperta di sostanze attive nelle varie fasi del ciclo cellulare specifico degli antiblastici, ha aperto la strada alla terapia target che a partire dagli ultimi anni del XX secolo si è imposta sempre di più nella logica della correzione del difetto biomolecolare alla base del processo di cancerogenesi.

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